Cocoon: “Hai un amico in me” — Recensione

Andrea Baiano Svizzero
5 min readOct 17, 2023

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Ho una certa stima per le persone che riescono a reinventarsi. Jeppe Carlsen, game designer e director di Cocoon, è una di queste: ha un background come programmatore ed è poi diventato lead gameplay designer su Limbo, citando tra le sue esperienze “l’aver giocato tanti videogiochi”. Il puzzle-platform bidimensionale in bianco e nero è stato la sua prima vera esperienza nel ruolo. È praticamente passato dallo scrivere righe di codice a progettare interi livelli, prima su Limbo e poi su Inside, l’opera che ha definitivamente consacrato il team di Playdead. Quella non è stata l’ultima volta in cui lo sviluppatore danese si è reinventato. Lo ha fatto di nuovo nel 2016, lasciando Playdead per fondare lo studio indipendente Geometric Interactive e lavorare alla sua nuova creatura: Cocoon.

Di coleotteri, sfere e universi

A differenza di quanto visto in Limbo e Inside, Jeppe Carlsen ha detto addio alle monocromie bidimensionali per creare un puzzle-game isometrico pieno di colori, paesaggi alieni e suoni meccanici. Se dovessi descrivere Cocoon accostandolo ad altre esperienze videoludiche, lo farei prendendo in prestito le parole del suo creatore: “È un po’ Zelda, ma non proprio. Un po’ Portal, ma non proprio. Un po’ Hyper Light Drifter, ma non proprio”. Se tutti questi nomi non vi suggeriscono nulla, provate ad immaginare Cocoon come un diorama su di cui, dall’alto, si posa il vostro sguardo: nei panni di un coleottero dovrete attraversare questo piccolo, grande mondo risolvendo un puzzle dopo l’altro.

Le azioni a vostra disposizione sono solo due: il movimento e un tasto azione; quest’ultimo vi permetterà di agire sul mondo di gioco in vari modi, ad esempio caricando le sfere sulla schiena per sfruttare i loro poteri unici durante l’esplorazione, o entrando nei mondi contenuti in esse attraverso delle speciali strutture. Le sfere di Cocoon sono come delle matrioske russe: ognuna di esse ha al suo interno un mondo, ma può anche contenere un’altra sfera; la peculiarità del gameplay sta proprio nel modo in cui vi ritroverete a combinare e manipolare le sfere e i mondi contenuti in esse per risolvere i puzzle del gioco. È bellissimo quando Cocoon pone al giocatore queste sfide e gli chiede di rinunciare a una forma mentis, a un modo convenzionale di ragionare. L’idea di gameplay dietro le sfere, infatti, lo invita a non ragionare in un unico spazio, ma ad allargare la portata del suo pensiero ad ognuna delle sfere in più con cui dovrà interagire. Tra di loro si crea un dialogo continuo: si influenzano a vicenda, comunicano tra di loro; sta al giocatore decifrare quel dialogo e capirne le cause e conseguenze.

La complessità concettuale alla base del gameplay di Cocoon può stordire e confondere, soprattutto se vissuta attraverso le parole di qualcun altro. È solo giocandolo in prima persona che si comprendono davvero le sue possibilità e la bellezza delle sfide che pone davanti al giocatore. Anche nelle sue interazioni più semplici, come può essere l’attivare una piattaforma per raggiungere un’area distante: invece del classico switch a tempo, il gioco ci permette di posizionare una sfera al centro della piattaforma, per poi uscire da essa quando quest’ultima avrà raggiunto la sua destinazione, a noi prima inaccessibile. Cocoon offre al giocatore dei problemi complessi, da risolvere con pochi e semplici strumenti: una filosofia che ha accompagnato tutti i lavori di Jeppe Carlsen, ma che qui trova la sua massima espressione.

Lo sviluppatore è mio amico

Osservandolo nelle sue singole componenti Cocoon è un gioco semplice: non si può morire e lo schema di controllo prevede solo due tasti per tutta la sua durata. Non c’è nemmeno un tutorial, perché tutto ciò che c’è da sapere viene insegnato attraverso il gameplay. Cocoon, piano piano, mi ha insegnato tutto ciò di cui avevo bisogno per affrontare le fasi finali del viaggio, quelle più complesse. Cocoon è una masterclass di game design: i puzzle non si fanno necessariamente più difficili andando avanti, ma alternano situazioni, idee e diversi livelli di complessità scandendo un ritmo perfetto; ti mette in condizione di fare tue le sfumature di gameplay proprie di un mondo, con sezioni più lineari, per poi farti applicare quelle “nozioni” su puzzle più complessi, che coinvolgono più di una sfera. Cocoon non è mai soverchiante, i suoi confini sono sempre scanditi con grande eleganza e saggezza: persino dalla musica, che accompagna il giocatore con un crescendo sonoro quando è sul procinto di risolvere un puzzle. Se The Legend of Zelda ci ha abituato ad aspettare la musica dopo aver risolto un enigma, quasi ad enfatizzare il nostro successo, Cocoon lo fa dicendo al giocatore — Stai andando bene, continua così — ed è bellissimo.

Capita molto raramente che un videogioco mi faccia sentire completamente a mio agio, con i suoi sistemi e il suo senso di progressione. In qualche modo l’attrito che si crea tra il giocatore e il gioco, e di riflesso con il suo creatore, è parte integrante dell’esperienza della maggioranza dei videogiochi. Alcuni riusciranno a sopportare quell’attrito più di altri. Non voglio dire che Cocoon sia “universale” e che possa arrivare a tutti allo stesso modo, ma se c’è un gioco che può mostrare cosa avviene quando si fa del buon game design, sarebbe questo. Mi sono fidato di Cocoon, di Jeppe Carlsen, e lui si è fidato di me: mi ha dato gli strumenti, a volte mi ha sviato, ma non mi ha mai fatto dubitare delle sue regole. Persino le boss fight, che mai mi sarei aspettato di vedere in un titolo del genere, seguono la stessa filosofia che permea tutta l’opera: complesse ma meccanicamente semplici da affrontare, con idee e regole sempre diverse, ma sempre cristalline e stabilite con un patto silenzioso con il giocatore. Durante le mie ore con Cocoon non ho mai provato frustrazione, solo piacere mentale misto a meraviglia. È per tutte queste ragioni che Cocoon è un capolavoro, e poco importa se risulta poco incisivo nel suo racconto: l’avventura puzzle di Geometric Interactive eccelle nel suo essere prima di tutto gioco e va bene così.

In un talk del 2011 incentrato sul puzzle-design di Limbo, Jeppe Carlsen ha spiegato l’idea dietro il suo processo di design: rendere i giocatori sia i suoi più grandi nemici, che i suoi più grandi amici. Sapete, quelli che in una qualsiasi storia di formazione si prenderebbero la proverbiale pallottola per salvare il protagonista. Dopo aver giocato Cocoon, prenderei volentieri una pallottola per il buon Jeppe.

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Andrea Baiano Svizzero

Ho scritto di videogiochi per GameSoul e Game Division, e li ho raccontati quotidianamente su Twitch per GameStop Italia. Lo farò anche qui, per conto mio.